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Cesare Pavese – Estate

Cesare Pavese

Estate

C’è un giardino chiaro, fra mura basse,
di erba secca e di luce, che cuoce adagio
la sua terra. È una luce che sa di mare.
Tu respiri quell’erba. Tocchi i capelli
e ne scuoti il ricordo.

Ho veduto cadere
molti frutti, dolci, su un’erba che so,
con un tonfo. Così trasalisci tu pure
al sussulto del sangue. Tu muovi il capo
come intorno accadesse un prodigio d’aria
e il prodigio sei tu. C’è un sapore uguale
nei tuoi occhi e nel caldo ricordo.

Ascolti.
La parole che ascolti ti toccano appena.
Hai nel viso calmo un pensiero chiaro
che ti finge alle spalle la luce del mare.
Hai nel viso un silenzio che preme il cuore
con un tonfo, e ne stilla una pena antica
come il succo dei frutti caduti allora.

Cesare Pavese
Biografia
Opere

Cesare Pavese – Scrittore italiano (Santo Stefano Belbo 1908Torino 1950). P. ha svolto un ruolo essenziale nel passaggio tra la cultura degli anni Trenta e la nuova cultura democratica del dopoguerra. La sua partecipazione al presente si è sempre legata a un profondo senso della contraddizione tra letteratura e impegno politico, tra esistenza individuale e storia collettiva, attraverso una tormentosa analisi di sé stesso e dei rapporti con gli altri e una ininterrotta lotta per costruirsi come uomo e come scrittore.

Nacque da famiglia piccolo-borghese originaria delle Langhe. Visse per lo più a Torino, dove si laureò in lettere con una tesi su W. Whitman; discepolo di Augusto Monti, amico di L. Ginzburg e di altri intellettuali antifascisti, fin dagli anni Venti lesse numerosi autori americani e iniziò a tradurre scrittori inglesi e americani. Negli anni successivi svolse un intenso lavoro in questo campo traducendo, tra l’altro, opere di Defoe, Dickens, Melville, Joyce. Fra il 1935 e il 1936, per i suoi rapporti con i militanti del gruppo Giustizia e Libertà venne arrestato, processato e inviato al confino a Brancaleone Calabro; tornato a Torino, fu tra i principali collaboratori della casa editrice Einaudi. Ma la sua vita era dominata da un profondo senso di solitudine e vuoto, più forte dopo la fine di un’esperienza d’amore vissuta negli ultimi anni di università. A partire dal 1940 una nuova, difficile amicizia fu quella con F. Pivano. Nel 1942 fu assunto direttamente come dipendente della casa editrice Einaudi: dopo un soggiorno a Roma, si rifugiò durante l’occupazione tedesca in un paese del Monferrato, presso la sorella, guardando con amarezza gli eventi della Resistenza. Dopo la Liberazione, si iscrisse al partito Comunista e cominciò a collaborare all’Unità. Seguirono anni di lavoro molto intenso, in cui egli scrisse e pubblicò le sue opere di maggior successo. Venne trovato morto, per effetto di una dose eccessiva di sonnifero, il 27 agosto 1950.

I suoi inizi di poeta, ma di una poesia (Lavorare stanca, 1936) che, nata in clima ermetico-decadente, tende a superarne l’ossessivo soggettivismo mediante la proiezione oggettiva di quelli che sono e più saranno i temi di fondo di P.: la ricerca di contatti umani, di incontri con la realtà quotidiana, di reimmersione nel mondo rurale da cui proviene, a difesa dalla meccanicità della vita cittadina, dalla solitudine interiore e dal congiunto pensiero della morte. Oggettivazione che, dal giro largo del verso (sull’esempio, appunto, di Whitman) alla discorsività del tono, già porta alla narrativa: e la sua opera successiva è infatti di narrazioni brevi o lunghe (non di romanzi propriamente detti) improntate a un realismo che, se risente della lezione verghiana, e più di quella letteratura nord-americana di cui frattanto P. si era fatto traduttore e introduttore (con Vittorini) in Italia, ha però profonde radici in quel suo amore di piemontese per la propria terra, per il linguaggio della sua gente, specie a livello contadino o operaio, da cui egli mutua vocaboli e cadenze per il frequente, agile «parlato» dei suoi racconti. Un realismo che peraltro non va disgiunto da una schietta vena di lirismo, scaturente da una memoria che, facendo centro sull’infanzia, s’innalza all’assoluto, al mito o sfocia nel simbolo; onde la sua narrativa, dopo un primo, violento balzo (quasi in polemica con la letteratura tradizionale) nel verismo più crudo, all’americana (Paesi tuoi, 1941), si svolgerà nell’alternativa di questi modi, da La spiaggia (1942) a Feria d’agosto (1946), da Il compagno (1947) e Dialoghi con Leucò (1947) a La luna e i falò (1950), da Notte di festa (post., 1953) a Festa grande (in coll. con Bianca Garufi, post. e incompiuto, 1959) a Ciau Masino (post., 1968). Non senza, certamente, squilibri e smagliature, ma molto spesso con intensità d’ispirazione e d’espressione, toccando i vertici artisticamente più alti là dove, con la mediazione di un paesaggio che è trepido contrappunto di senso (o natura) e sentimento, quei modi finiscono col convergere e compenetrarsi: come in Prima che il gallo canti (1949) e La bella estate (1949). Per dare tuttavia luogo, alla fine, quando vicende intime rafforzeranno, senza scampo, il pessimismo e la vocazione suicida di P., di nuovo alla poesia: Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (post., 1951); ma questa volta lontana dalla prosasticità di Lavorare stanca, per quanto è vicina alla lirica «pura», anzi alla pura liricità. Testimonianza importante non pure del suo travaglio intellettuale e morale, ma di quello di tutta una generazione e un’età, sono anche gli scritti critici di P. (La letteratura americana e altri saggi, post., 1951), il diario (Il mestiere di vivere, post., 1952), e soprattutto l’epistolario (Lettere, 2 voll., 1966: I, 1924-1944, a cura di L. Mondo; II, 1945-1950, a cura di I. Calvino). La sua opera, pubblicata dall’editore Einaudi, è ora raccolta in 14 volumi.